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Startup e growth hacking: parole chiave per la digitalizzazione delle PMI

L’ambiente delle startup e l’utilizzo di tecniche innovative sono spesso considerati la soluzione al problema del basso livello di digitalizzazione delle imprese italiane.

In particolare, una delle parole d’ordine più diffuse nel mercato del lavoro è “growth hacking”, spesso legata alle nuove idee di giovani e neo-laureati start-upper.

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Tuttavia, in un contesto così dirompente, le imprese digitali e “giovani” sono davvero in grado di sviluppare solide basi nel mondo “offline” e di portare valore aggiunto alle imprese e al mercato del lavoro?

Secondo il rapporto “DESI – Digital Economy and Society Index”, l’Italia si colloca al 25° posto tra i 28 Paesi europei.

Si tratta di una mancanza significativa rispetto ad altri Paesi simili, come Francia e Germania. Inoltre, l’Italia si trova nella stessa posizione dal 2015.

La situazione è simile anche su altri fronti: il DMI – Digital Maturity Index sviluppato dall’Osservatorio Agenda Digitale, ha analizzato 118 indicatori, suddividendoli in quattro aree: infrastrutture, pubblica amministrazione, cittadini e imprese.

Su 28 Paesi europei, l’Italia si colloca al 22° posto per l’impegno nell’attuazione dell’Agenda Digitale e al 25° per i risultati delle iniziative di digitalizzazione adottate negli ultimi anni.

In questo quadro desolante, le imprese investono comunque in startup, growth hacking e hackathon.

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Growth hacking: la formula più usata dalle startup italiane

Il termine growth hacking è una delle parole d’ordine attuali nel mondo digitale.

Lo sentiamo spesso, soprattutto in relazione alle startup e all’innovazione, ma cosa significa davvero?

La prima definizione, utilizzata per la prima volta nel 2010 dal suo ideatore, Sean Ellis, ci aiuta a farci un’idea più precisa:

“Il growth hacking è un processo di rapida sperimentazione attraverso una serie di canali di marketing per identificare i modi più efficaci per far crescere un’azienda.”

Oltre a essere un esperto di marketing per le startup, Sean Ellis è stato il primo growth hacker. Ha infatti creato la parola “growth hacking” e le linee guida del processo.

Perché lo ha fatto? Ellis era alla ricerca di una figura che potesse sostituirlo sul lavoro. Ma nessuno dei curricula ricevuti era sufficientemente rilevante per poter prendere il suo posto nella sua startup.

I candidati avevano le giuste credenziali; c’erano, ad esempio, diversi esperti di marketing con carriere brillanti, ma Ellis pensava che nessuno fosse sufficientemente competente nel mondo delle startup.

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Così Ellis decise di modificare l’annuncio di lavoro, inserendo il termine growth hacker: la persona che stava cercando doveva essere focalizzata sulla crescita della startup. Da qui il termine growth.

Il growth hacking sembra utile per tutte le aziende, ma allora perché sentiamo queste parole soprattutto in associazione alle startup?

Sean Ellis, il cui obiettivo principale era la crescita dell’azienda, riteneva che il growth hacking fosse l’approccio migliore per le startup: qualcosa di diverso e unico, in grado di combinare nuove tecniche e diversi modus operandi con scadenze molto strette.

Il tempo è un elemento essenziale per le startup: devono essere in grado di evolversi rapidamente, creare la loro base di clienti e iniziare a guadagnare per sopravvivere in un mercato altamente competitivo. Inoltre, gli investitori e i sostenitori devono essere in grado di vedere chiaramente la crescita della startup.

Come le startup e le PMI italiane possono affrontare le sfide della digitalizzazione?

La digitalizzazione può rappresentare sia un’opportunità che una sfida per le startup e le aziende: l’importante, però, è saper prendere in considerazione non solo gli aspetti teorici ma anche quelli pratici.

È importante che il personale sia ben formato e adeguatamente preparato per cogliere le opportunità offerte e che nulla sia lasciato al caso.

È tipico che gli studenti o i neolaureati che entrano in una startup abbiano delle lacune nelle loro conoscenze pratiche.

Dobbiamo essere in grado di colmare queste carenze con sistemi aziendali strutturati o con il supporto di Sistemi in grado di bilanciare le conoscenze e creare valore come Manuagere di Fattoria dei Talenti.

Sebbene l’esistenza di tali mancanze possa essere comprensibile, la scarsità nel reagire è inaccettabile: sia startup che aziende dovrebbero essere proattive nel trovare un modo per superare le difficoltà del gap di competenze.

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Avere la giusta mentalità nel mondo digitale è la base per avviare imprese e startup e aziende di successo: ciò significa essere in grado di adottare un modello di cambiamento del business, che sia un vantaggio sia per i clienti che per i collaboratori..

Le startup dovrebbero prestare particolare attenzione ad aspetti del modello aziendale quali:

  • business basato sull’esperienza,
  • gestione ed elaborazione di big data a fini di personalizzazione,
  • orientamento al dipendente e al cliente
  • competenze digitali, sia verticali che orizzontali

Sono dell’idea che se vogliamo migliorare ed affrontare questa digitalizzazione nel modo più ottimale possibile, sia le startup che le aziende devono imparare a confrontarsi, acquisendo il meglio che entrambe possono dare.

Non dimentichiamo però, che appoggiarsi a specialisti delle risorse umane come noi di Fattoria dei Talenti, può solo incrementare l’operato dei tuoi talenti oltre che al tuo fatturato.

Scopri come possiamo aiutarti cliccando qui!

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Ugo D’Alberto

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Andrea è il socio più giovane di Fattoria e ha subito trasferito l’autodisciplina e l’impegno del nuoto nel lavoro.
Sono sconcertato di come tante persone che incontro nella vita privata e nel lavoro facciano fatica ad accettare il cambiamento. Niente di nuovo, lo dicono tanti consulenti e formatori da anni. Il concetto di zona di comfort è ormai molto diffuso. E allora qual è il mio contributo?

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